«Il manicomio ha la sua ragione di essere, perché fa diventare razionale l’irrazionale. Quando qualcuno è folle ed entra in un manicomio, smette di essere folle per trasformarsi in malato. Diventa razionale in quanto malato. Il problema è come sciogliere questo nodo, superare la follia istituzionale e riconoscere la follia là dove essa ha origine, come dire, nella vita.» (Franco Basaglia, Conferenze brasiliane 1979)
Lo affermava Franco Basaglia, il più noto psichiatra del secolo scorso, che si impegnò nel compito di riformare l’organizzazione dell’assistenza psichiatrica ospedaliera e territoriale. Ispirandosi alle idee dell’ungherese Thomas Szasz e rifacendosi alla cosiddetta Antipsichiatria, il suo scopo fu quello di trasformare i manicomi in comunità terapeutiche.
Prima di allora i malati psichici erano considerati persone prive di dignità, da debellare, da isolare e da rinchiudere poiché incapaci di adattarsi alla normale vita sociale .
Dopo la medioevale caccia alle streghe, già nell’Età Classica la follia veniva considerato un problema sociale. Proprio in quel periodo sorsero moltissime case di internamento volte a rinchiudere una varietà di persone rifiutate dalla società. Presto, le case di internamento si diffusero in tutta Europa e, cosa più grave, divennero uno strumento di potere enorme in quanto decidevano definitivamente ed illogicamente sulla vita delle persone.
Fu solo in seguito alla nascita del pensiero illuminista che la concezione legata alla malattia mentale cambiò: iniziarono ad essere riconsiderate le “pratiche messe in atto per combattere la follia”. Nascono così i manicomi: luoghi situati in periferia in cui i principi di umanità, rispetto e dignità venivano soppressi a favore della totale sfiducia nell’individuo. In Italia l’organizzazione dei manicomi era drammatica e affidata alla gestione di frati e di suore; da qui si sviluppò la necessità di regolamentare una realtà manicomiale.
Nel febbraio 1904 fu promulgata la prima legge italiana “sui manicomi e sugli alienati”: la legge Giollitti. Prima della ormai nota legge 180 , era vigente la legge 36 del 1904 per la quale venivano rinchiusi nei manicomi le “persone affette per qualunque causa da alienazione mentale”. Dopo un periodo di osservazione, i pazienti perdevano i diritti civili ed erano iscritti nel casellario penale. Di fatto i manicomi fungevano da “contenitori sociali” che controllavano non solo malati mentali ma anche piccoli delinquenti, prostitute, sovversivi e omossessuali. La legge Giollitti non solo ufficializzò la funzione pubblica della Psichiatria ma propagandò l’individuazione tra malattia mentale e pericolosità. L’impostazione clinica dei manicomi si apriva poco ai contributi della psichiatria sociale, delle forme di supporto territoriale e delle potenzialità delle strutture intermedie.
Da qui nacque la necessità di modernizzare l’impostazione clinica dell’assistenza psichiatrica, riconoscendo appieno i diritti dei pazienti: la legge 180, meglio conosciuta come la Legge Basaglia. La legge 180/1978 è la prima e unica legge che impose la chiusure dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentali pubblici. Lo scopo principale fu quello di trasformare i manicomi in comunità terapeutiche, centri in cui il malato avrebbe potuto instaurare rapporti umani con il personale e con la società, riconoscendo appieno i diritti e la necessità di una vita di qualità per i pazienti. Franco Basaglia non smantellò i manicomi semplicemente con la propria legge, ma lavorando all’interno: simbolo di questa rivoluzione culturale fu Marco Cavallo.
Nel 1973 fu infatti realizzata all’interno del manicomio di Trieste una scultura di legno e cartapesta grazie al contribuito ideale e immaginifico dei pazienti allora reclusi. Alta 4 metri, la grande statua del cavallo azzurro rappresentava l’animale che l’anno precedente era stato salvato dal macello e quindi adottato. Divenne icona etica, sociale, medica e politica a favore della legge sulla chiusura dei manicomi: la Legge Basaglia.